A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro
Negli scorsi articoli abbiamo spesso menzionato il borgo di Morivione, sito all’imbocco della via dei Fontanili e di via Verro, laddove ora c’è l’incrocio con la via Bazzi; questo abitato, compreso tra il corso del Cavo Ticinello e quello della Roggia Vettabbia, ha una tradizione e una storia molto antiche.
Il nome del borgo si deve infatti ad una leggenda, probabilmente con un fondo di verità: pare che al tempo di Luchino Visconti (che fu Signore di Milano dal 1287 al 1349), la zona fosse infestata dai briganti, soldati di ventura della Compagnia di San Giorgio sbandati dopo la battaglia di Parabiago (21 febbraio 1339), a capo dei quali si era posto Vione Squilletti. Vione è un nome di origine camuna, e in camuno suona Viu'. Si dice che Viu’ Squilletti fosse in realtà un discendente di un re ostrogoto, che usava un fischio assordante per attaccare il nemico (da cui squillo e poi squilletti). Sicuramente era nato nel Malcantone, forse vicino a Melano (località sita nei pressi di Mendrisio nel Cantone Ticino dell’odierna Confederazione Svizzera), e si era sposato con una certa Esmeraldina Bossi. In seguito si era rifugiato con una dozzina di figli a Citt (odierna Cittiglio, in provincia di Varese). Alla vigilia della festività di San Giorgio, stanchi delle azioni dei banditi, i milanesi si sarebbero recati dal loro signore chiedendogli di liberarli da loro. Costui aderì alla richiesta e il giorno successivo diede battaglia al gruppo di masnadieri che assediavano il luogo. Vione, catturato, venne ucciso il 24 aprile 1342. Il giorno seguente la popolazione sarebbe andata sul luogo della battaglia e avrebbe offerto ai vincitori latte fresco, panna e uova, e nel frattempo su di un muro sarebbe stato dipinto San Giorgio che ammazza il drago, con una scritta: “Qui Morì Vione”.
Un’altra variante alla storia, meno credibile, racconta che il malvivente si chiamasse Alessandro Vione e fosse un ex soldato a servizio degli Sforza, trasformatosi in ladro e qui scovato e pugnalato a morte ai piedi di un glicine dalle guardie degli Sforza.
Quale che sia la verità, da quel giorno San Giorgio, oltre che protettore dei Cavalieri, divenne anche santo patrono dei lattai; e, come testimonianza dell’avvenimento, ogni anno effettivamente i milanesi erano soliti recarsi, il 25 aprile, in questo borgo a festeggiare San Giorgio con la “panerada”, bevendo latte fresco appena munto, “panera” appunto (cioè panna) servita in tazze di maiolica e mangiando il "pan de mèj dolz", ossia il pane di farina di miglio e fior di sambuco; questo fatto è anche citato nel romanzo "Fosca" di Iginio Ugo Tarchetti, scritto nel 1869.
La festa di San Giorgio, in Lombardia, prevedeva inoltre che i lattai, per onorare il loro patrono, ornassero i loro negozi con lunghi rami di pioppo ed esponessero l’altarino del Santo; in quel giorno infine iniziava l’annata casearia, per cui si stipulavano i contratti del latte e del formaggio.
Venendo più vicino ai tempi nostri, la storia ci ricorda anche che in questo ameno borgo, alla fine dell'Ottocento, affluiva una certa quantità di mano d'opera, richiamata dalla riseria Navoni, al tempo la più grande di Milano, e dalla Fornace Butti, che per far arrivare l'argilla dalle cave del comune di Vigentino aveva messo in funzione la ferrovia Decauville che ho citato nello scorso articolo.
Terminiamo qui l’excursus storico e toponomastico; nel prossimo articolo ci occuperemo di che cosa sia rimasto ai nostri giorni di questo antico borgo di origine rurale e ricco di acque.