A cura della Fondazione Milano Policroma
Testo di Riccardo Tammaro
In viale Umbria, al civico numero 62, si trova una stazione dei carabinieri; essa e' alloggiata in un edificio storico, originalmente del diciottesimo secolo, anche se la struttura attuale puo' essere fatta risalire alla fine del diciannovesimo secolo, come dimostrano le forme pseudo-neoclassiche. Si trattava in origine del collegio armeno-mechitarita, come lo chiamano tuttora gli abitanti del quartiere. Ma chi erano (o meglio chi sono) gli armeno-mechitariti? In questo articolo cercheremo di rispondere a questa giustificata domanda.
Innanzi tutto occorre precisare che questa dizione causa una certa confusione: non tutti gli armeni, infatti, sono mechitariti, anzi la differenza religiosa e' marcatissima: gli armeni, di cui parleremo nel seguito, sono ortodossi, e a Milano, come vedremo, esiste una chiesa per questa comunita', di cui ricostruiremo la storia; i mechitariti, invece, sono cattolici, e si sono separati dagli armeni costituendo una propria storia che ci accingiamo a percorrere.
Separatisi con uno scisma dagli armeni (i quali peraltro costituirono una delle prime chiese cristiane del mondo, risalente al terzo secolo, come vedremo in seguito), i mechitariti subirono una violenta persecuzione sotto il dominio degli ottomani, che li costrinse all'esilio. Approdati in Italia nel primo decennio del Settecento, si stabilirono, al seguito del vescovo Mechitar, sull'isola di San Lazzaro, nella laguna di Venezia, ma poco tempo dopo furono minacciati da Napoleone; e qui la storia lascia il passo alla leggenda.
La voce popolare tramanda infatti la favola bella secondo cui l'isola lagunare di San Lazzaro degli Armeni si sarebbe salvata con uno stratagemma paradossale, messo in atto dai sacerdoti armeni, dalla soppressione e dallo smantellamento di tutti i conventi e le comunita' religiose decisi da Napoleone Bonaparte all'indomani della resa della plurisecolare Repubblica di San Marco. Essi infatti avrebbero sbandierato, sulla loro ridente isoletta, lo stendardo del sultano, dalla cui persecuzione erano fuggiti, e che a quell'epoca era momentaneamente alleato dell'imperatore francese.
Fonti meno pittoresche sostengono invece che la salvezza della comunita' levantina sia dipesa dal fatto che, per gli occupanti transalpini, la biblioteca, la tipografia e la pinacoteca di San Lazzaro rientravano nel novero delle istituzioni culturali risparmiate dalla confisca dei beni ecclesiastici. Sia come sia, e' indubbio che l'isoletta e' stata la sola nella laguna ad essere risparmiata dal generale degrado che aveva ridotto le altre a caserme, polveriere, manicomi, ossari.
Per comprendere la personalita' dei mechitariti e' significativo quanto realizzarono sull'isoletta, ancor piu' alla luce della situazione che trovarono. L'isola era stata infatti per secoli un lazzaretto, meglio ancora un lebbrosario, adibito a tale funzione fin dagli inizi del Duecento, quando aveva assunto il nome di San Lazzaro. In seguito l'ospedale era stato ristrutturato integralmente cosi' da poter accogliere una comunita' di Domenicani; ma anche i frati dal saio bianco trovarono disagevole la residenza insulare, sicche' il loro convento, dopo qualche decennio, chiuse i battenti e dopo di allora l'isola degrado' progressivamente nel piu' totale abbandono.
In definitiva quindi e' databile agli inizi del Settecento la recente storia dell'isola di San Lazzaro, indissolubilmente legata alla personalita' lungimirante di Manug di Pietro, nato a Sebaste, in Cappadocia, da famiglia nobile (ma secondo altre fonti da un venditore ambulante) e ordinato sacerdote a soli vent'anni, prendendo da allora il nome di Mechitar, ovvero "il consolatore".
Uomo di grande cultura e di notevoli ambizioni, Mechitar aveva fondato a Costantinopoli una accademia letteraria impegnata, tra l'altro, nella stampa e nella rilegatura di libri di argomento religioso. Ma il suo attivismo, nella capitale di una nazione musulmana, non era stato da tutti apprezzato, sicche' il giovane prelato penso' bene di ritirarsi a Modone, nel Peloponneso, fondandovi un monastero di regola benedettina. Quando anche Modone fu conquistata dai turchi, Mechitar se ne fuggi' a Venezia, dove fin dal Duecento prosperava una stimatissima comunita' armena.
Qualche tempo dopo ottenne dal Governo Serenissimo, per se' e per i suoi confratelli, la piena disponibilita' della ormai deserta isola di San Lazzaro. Per circa trent'anni si protrassero i lavori di costruzione del nuovo convento,
della contigua chiesa, della foresteria, il tutto coronato dall'entrata in funzione, a partire dal 1789, della ben presto celeberrima tipografia poliglotta, specializzata in addirittura trentasei lingue orientali.
Per chi volesse visitarla ai nostri giorni, a San Lazzaro degli Armeni si conserva l'incantesimo dovuto alla imponente flora, formata da pini mediterranei, svettanti cipressi, esotici cedri del Libano che incorniciano i rossi mattoni e gli ancora piu' accesi intonaci delle accorpate fabbriche del bicentenario convento e della coeva chiesetta, ricostruita dopo il rovinoso incendio del 1883. E' ivi possibile, in una visita guidata da un cortese padre armeno che parla in media cinque lingue, attraversare il vestibolo su cui spicca la data del primitivo convento domenicano (1496) e accedere al chiostro di impronta rinascimentale che costituisce il baricentro della piccola patria armena perpetuante i riti, la civilta', i costumi della lontana terra d'origine.
Di Manug di Pietro detto Mechitar e' la statua bronzea (di Antonio Baggio) che allarga le braccia tra il verde cupo della macchia mediterranea, mentre la tomba del "consolatore" e' sotto l'altar maggiore della chiesa, e un altare della navata destra e' impreziosito da un dipinto settecentesco di Francesco Zugno raffigurante un Sant'Antonio abate che, secondo un'accreditata leggenda, avrebbe il volto di Mechitar.